I gemelli, di Martina Riina

Era da tempo che non si udivano applausi, grida entusiaste o rulli di tamburi. Nei dintorni qualcuno aveva detto che il teatrino dei burattini era stato chiuso perché i proprietari erano caduti in bancarotta, e da quando la moglie del burattinaio aveva “dato di matto” avevano cominciato a tribolare sull’orlo della fame e della miseria.

La famiglia di gitani Flores del Alma faceva spettacolo nel suo teatrino da almeno sette generazioni. Aveva iniziato con qualche numero di prestigio e negli utlimi dieci anni avevano fatto il loro debutto i burattini, diventati presto l’attrazione numero uno della baracca. Il gestore del teatrino, il patriarca dell’intera famiglia, Juan “el Gordo”, un uomo grande e ambizioso, aveva aspettato il momento giusto per far risorgere quell’antica passione che conservava da quando era piccolo, quando ancora era un bambino, il più furbo e ingegnoso di tutti gli altri bambini della famiglia, persino degli adulti. Juan “el Gordo” iniziò giovanissimo a costruire centinaia di omini di legno con l’intenzione di farli sembrare persone del tutto vere e col passare degli anni cominciò a farli somigliare uno per uno a se stesso. Intagliava sempre qualcosa che richiamava le sue fossette, oppure il taglio dei suoi occhi, oppure ancora le sue espressioni di rabbia o di contentezza. Quando terminava un burattino lo trasportava di fronte allo specchio e ne ammirava la somiglianza con il suo volto, sorrideva, ammiccava alla sua immagine riflessa e se ne tornava allegro e trotterellante alla fucina. Nonostante la mole di lavoro, era Juan “el Gordo” l’unico a costruire i burattini. Spettava a lui dare un nome e un ruolo ad ognuno di essi in quel piccolo mondo fatto di legno e velluto, dove il palco, il sipario e il retroscena creavano le situazioni cangianti della vita dei piccoli omini di legno, le loro imprese e le loro burla, il loro duelli e le loro scorribande, tutti racconti che i gitani inscenavano e trasmettevano dalla notte dei tempi.

Un giorno come tanti, qualcuno disse di correre al teatrino perché era accaduto qualcosa di terribile. Come si vociferò presto nel quartiere, la moglie di Juan cominciò a “dare di matto”, quando suo marito stava finendo di lucidare l’ultimo burattino della giornata. Gli aveva detto: – guarda che stasera c’è bisogno di legna per il fuoco e non di un altro burattino uguale a te! –  e proprio mentre stava per terminare la frase si accorse che c’era qualcosa di strano in quello che stava vedendo di fronte a sé. Il burattino si muoveva da solo, come una persona in carne ed ossa. Somigliava al burattinaio, in effetti, e indossava anche il suo abito da spettacolo preferito, quello di velluto blu con sottili striature argentate. Juan “el Gordo”, invece, indossava abiti da lavoro e un orrendo cilindro arancione macchiato di lerciume. Di colpo si girarono entrambi verso la donna e fu il burattino in abito blu a parlare per primo: – sembra che hai visto un fantasma – esclamò, e girandosi nuovamente verso il burattinaio ammiccò con un’espressione da far venire i brividi. La moglie non riusciva a credere ai suoi occhi, il burattino era vivo e parlava per giunta! Nell’istante immediatamente successivo decise che avrebbe fatto a pezzi quell’essere diabolico e prese con scatto felino il martello dallo scaffale. Si scagliò contro il burattino brandendo l’arma con decisione. – Sei diventata pazza! – le urlò il marito. E la moglie, che non smetteva di agitare il martello tra le mani nervose, strillò a sua volta – lasciami distruggere questa diavoleria!

Quello che avvenne dopo lo videro soltanto i due figli minori del burattinaio, che se ne stavano nascosti sotto il tavolo da lavoro del padre. Erano gemelli, perfettamente identici e spiritati negli occhi, pieni di cicatrici e con i capelli arruffati fino all’inverosimile. Raccontarono al resto della famiglia che Juan “el Gordo” era riuscito a far vivere i suoi “alter ego” e la moglie, in un momento di nervi, lo aveva ucciso scambiando anche lui per un burattino stregato.

I due gemelli avevano sentito spesso loro padre parlare di “dare un’anima” ai suoi burattini e si erano sempre chiesti se ce l’avrebbe mai fatta. In cuor loro avevano una certa paura di Juan “el Gordo” perché sapevano che anche lui riteneva, come i gitani di ogni stirpe, che bisognasse diffidare dei doppi, poiché rappresentavano il bene e il male separati in due individui perfettamente identici. Il problema era capire quale fosse il buono e quale il cattivo, e non potendolo stabilire con sicurezza allora era necessario diffidare di entrambi ed escogitare qualche stratagemma per tenere a bada la loro volontà. Forse era stata questa l’impresa ambiziosa di Juan “el Gordo”: catturare l’anima del buono e del cattivo, i suoi due figli gemelli, col fine di comprendere la natura malvagia dell’uno e l’animo magnanimo dell’altro. Ma ahimè, come dicevano i gitani dalla notte dei tempi, l’ambizione è sempre causa di sventure e anche se nessuno seppe mai che fine fecero tutti i burattini di Juan “el Gordo”, scomparsi come nel nulla il giorno stesso del misfatto, per paura di qualche nuova sciagura non ne fecero mai più parola con anima viva.   

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